Santi sulle mura di Palermo.
Nato il 21 Agosto 1972, sotto il segno del Leone, Igor Scalisi Palminteri vive l’infanzia tra Terrasini e Palermo. A sei anni passa un anno e mezzo in America dagli zii, lontano dalla famiglia che intanto attraversa un periodo difficile. Il resto degli anni li passa in un quartiere periferico palermitano, definendosi un “ragazzino di strada” e confessando, a quell’età, di voler fare il parrucchiere e non pensare completamente di poter diventare un pittore e occuparsi così attivamente del sociale. Raccontiamo la sua storia attraverso questa intervista.
Come è nata quindi la passione per l’arte?
«Ad introdurmi effettivamente nel mondo dell’arte furono in realtà diversi fattori. Uno di questi fu una professoressa delle scuole medie, che un giorno mi disse “hai un talento”. Non so se fosse vero, ma in quegli anni l’istituto nautico di Palermo indiceva un concorso artistico, “la pace tra i popoli“. Partecipai con un disegno (orrendo, ripensandoci oggi) su un cartellone, dipinsi tre pescherecci intenti a pescare con un unica rete. La rete era bellissima perché era dipinta da questa mia insegnante. Vinsi comunque il primo premio che consisteva in un giro in barca.
Il premio non era nulla di che, ma qualcosa si era smosso dentro di me, mentre mi affascinavano le linee sottili di quella rete così bella, confrontandole con le mie che erano ancora così grossolane. Il ruolo degli insegnanti, in età così importanti, è essenziale. Un altro elemento fondamentale fu mio fratello, che capì subito il mio improvviso interesse per l’arte, e mi supportò molto, aiutandomi a parlarne con i miei genitori. Mio padre mi indirizzò verso un suo amico architetto che seppe consigliarmi bene nello scegliere tra l’istituto d’arte o il liceo artistico.
Scelsi la seconda opzione per una serie di motivi, tra cui la presenza di ragazze che per un ragazzino in età adolescenziale non sono certo di poco conto. Il primo anno venni bocciato, ma fu di grande lezione quella bocciatura. Mi responsabilizzò molto, misi la testa a posto e mi innamorai delle materie studiate. Finito il liceo invece di fare gli esami di ammissione all’Accademia, provai gli esami di scultura, ma non entrai mai perché andai in convento».
Qui comincia la parte riguardante la tua “vita da prete”. Cos’è successo esattamente?
«Parallelamente, durante il liceo, avevo conosciuto i Frati Cappuccini: il convento era a pochi centinaia di metri da casa mia. Ero un ragazzino di strada, come ho già detto. Cominciai a frequentarli anche e soprattutto grazie ad un incontro fatale con un “angelo”, Francesco Di Giovanni, che mi fece conoscere i frati, e con lui cominciai a fare volontariato con i ragazzi e i bambini di Via Cipressi e dei quartieri Danisinni e Cappuccini, con cui attualmente lavoro. E anche quella fu una svolta.
Grazie alla compagnia dei frati mi innamorai della figura di S.Francesco, quindi lasciai la mia fidanzatina del liceo e andai in convento con loro per 7 anni. Sono stato in diversi conventi della Sicilia, mentre gli altri frati pregavano e imparavano altre lingue, io pregavo e dipingevo. Ho cominciato a dipingere le icone bizantine sul Trento. Sono stati anni passati tra la preghiera e le persone, ma soprattutto con la pittura. Quando arrivò la “crisi” (al sesto-settimo anno), il mio superiore Calogero Peri, che oggi è Vescovo, mi disse “non avere premura, Igor. Adesso capiamo qual è la tua strada. Non è detto che sia quella del frate. Prova ad iscriverti all’Accademia.”
Il primo anno in Accademia l’ho fatto con l’abito francescano. Lì capii che la mia vera vocazione, a parte essere francescano (e quello lo puoi essere pur non indossando l’abito) era quello di essere un pittore. Quindi mi tolsi le vesti da frate e frequentai regolarmente l’Accademia».
La svolta del volontariato in che modo ha influenzato la tua arte?
«Contemporaneamente all’Accademia c’era questo percorso che facevo al Centro Tau, alla Zisa, dove coordinavo laboratori artistici e ne portavo avanti uno io. Il mio percorso artistico non è stato mai separato dalla mia vita e dal mio intervento nel sociale.
Lavoro attivamente con le scuole: ho fatto un muro con i ragazzi della scuola e uno dedicato a Don Pino Puglisi in una scuola della periferia sud a Brancaccio, la Sperone Pertini, che a settembre inaugureremo. Il volontariato è un aspetto importantissimo della mia vita.
All’eco museo dell’arte memoria viva che c’è a Sant’Erasmo, alla foce del fiume Oreto, lì ho dipinto per la prima volta con i bambini della scuola di Brancaccio, con una seconda elementare, “gli uomini e le donne pesce” perché ho raccontato loro la storia di alcuni migranti, di una famiglia di migranti che viaggiano dall’Africa verso la Sicilia, attraversando il mare e cadendoci. Una bambina mi ha interrotto e mi ha detto che non sono morti, ma si sono trasformati in “uomini e donne pesce”. E così ho fatto disegnare e colorare loro delle sirene e dei “sireni” contemporanei. Loro erano circa 25 e ne hanno fatti 25. Io ho solo disegnato le figure, stranissime, e loro le hanno colorate, in una giornata.
Con Alberto Nicolino, che è stato fondamentale nel mio lavoro, abbiamo invetato una sorta di format e creato il “Ballarò Tail”. Lui che è un attore-narratore-regista ha incontrato le persone del quartiere di Ballarò, raccolto delle storie, trasformate in un racconto fiabesco, raccolto diversi gruppi di bambini del territorio a cui poi raccontava queste fiabe ed io contestualmente facevo disegnare loro queste storia. Prendevamo poi le illustrazioni, ne sceglievo alcune, le disegnavo sui muri e insieme le coloravamo.
Questi quattro murales sono a Ballarò, il quinto è all’aeroporto di Palermo. Raccontano la storia di Peppe senza suola. La casa editrice “Glifo edizioni” ha pubblicato il libro “Le avventure di Peppe senza suola a Ballarò”, libro illustrato per bambini: lo presenteremo a breve al Gangi Festival».
Come è nato questo interesse per i murales, rappresentativi del tuo personaggio artistico?
«Io ho sempre dipinto quadri, fatto murales con bambini piccoli fatti da loro in punti bassi. Io non mi reputo uno street artist, ce ne sono di veramente bravi in giro, la cosa è nata così, per caso. Vedevo questo muro da tanto tempo, e dicevo a mia moglie che avrei voluto fare un intervento grande. Poi quando dei ragazzi di Mediterraneo Antirazzista mi hanno chiamato e mi hanno detto “ti andrebbe di dipingere su questo muro?” (perché sapevano che lo guardavo da tanto tempo), per me è stato un segno.
Lì ho sentito tutta la responsabilità di un pittore che fa una cosa così grande e violenta per strada, perché non è in un museo, in una galleria dove sei tu che decidi di andarla a vedere, in questo caso è qualcosa che spiaccichi davanti agli occhi della gente ogni giorno, quindi mi sono chiesto: “cos’è che disegno?”. Ho riflettuto molto su quello che dovevo dipingere e ho semplicemente guardato quello che mi succedeva intorno, qui in Italia, dove segnali molto forti di razzismo ci fanno capire che alcuni pensieri nascosti di molti italiani stanno emergendo.
Oggi sembra quasi un vanto essere dei razzisti o degli omofobi. Quindi ho scelto di dipingere un santo nero. Mi sono sempre piaciuti i santi meno “straordinari” e più umani e Benedetto è uno dei più normali. E così ho pensato a San Benedetto, che ho dipinto per la prima volta tra il 2005 e il 2006 ad una mostra nel convento dei frati minori per una mostra curata da Marina Giordano. Dipinsi San Benedetto il Moro sul muro della piazza col campetto di calcio di Ballarò. Non pensavo di scatenare questo delirio.
Anche oggi sento forte questa responsabilità di dipingere in strada, perché ci sono cittadini che non lo vorrebbero, so che è un po’ una violenza, però mi consola il fatto che tra 10-15 anni gli agenti atmosferici faranno il loro lavoro e deterioreranno il dipinto fino a farlo scomparire. Nulla è per sempre, ancor meno un dipinto che sta sotto la pioggia e sotto il sole».
Qual è stato il tuo primo intervento in città?
«La Santa Morte in Vucciria. Ero ancora un timidone, ho visto questo portale di legno, in ristrutturazione. Pensavo che sul legno magari potesse durare un po’ di più, o se a qualcuno fosse piaciuto magari se lo sarebbe potuto prendere e portarlo a casa, succede spesso. Inoltre avevo una scaletta di 3 gradini, il legno era liscio, lì tutti i muri sono un po’ rovinati. Mi sembrava una tavola perfetta. L’icona della Santa Morte mi interessava particolarmente, noi siamo anche e soprattutto bizantini, e di esempi ce ne sono una infinità, Monreale, Cefalù, la Cappella Palatina…
Avendo dipinto le icone in passato, ho pensato di dipingere quella della Santa Morte come una sorta di monito: “stiamo attenti a non morire così in questi quartieri”. Poi mi hanno chiamato per fare Il Moro. E poi la confraternita dei Fornai, con Filippo, mi ha mandato una foto di questo muro, dicendomi “Dopo San Benedetto ci starebbe bene Santa Rosalia”. Ne ho parlato con Andrea Puglisi e ci siamo fatti venire questa idea. La rete è stata ampia, perché le cose non si fanno mai da soli quando si lavora sul territorio, con associazioni che stanno sul campo da tanto tempo, la circoscrizione.
È stato un lavoro corale. Francesco Galvagno ha messo a disposizione un fondo per il progetto, i colori ce li ha donati Antonio Piazza che è un ferramenta che credeva nel progetto, i palazzi sono tutti privati e abbiamo chiesto ad ogni condomino i permessi per il dipinto. L’unico permesso “speciale” è stato quello di Bazan, in corso Tukory, perché è accanto alle mura storiche. Siamo andati in sovraintendenza e in meno di una settimana ci hanno dato il permesso».
Come hai vissuto e come vivi Palermo da “artista”?
«Nel 2005 ho fatto la mia prima mostra personale da Federico Lupo alla galleria “Zelle” (attualmente “Tomo”). La galleria si è inaugurata con la mia esposizione personale. S’intitolava “Prendete e mangiatene tutti” e nel quadro principale c’ero io che mangiavo le mie interiora, che in realtà erano delle stigliola. E questo fu il battesimo.
Palermo secondo il “sistema dell’arte” è molto indietro. Molti non sono nel circuito, ma questo è un aspetto. Se io considero il fermento o la qualità di molti artisti palermitani, c’è una qualità altissima. Siamo stati penalizzati dalla distanza geografica, soprattutto col fatto che siamo un’isola. Molti artisti che conosco e stanno più in Centro hanno risultati migliori e notevoli.
Io prima agognavo questo sistema dell’arte e ci volevo entrare a tutti i costi, poi ho capito. Per come sono fatto io non sono adatto, non lo critico, ma non è fatto per me. La mia strada l’ho trovata in questa dimensione, quella del fare le cose con gli altri e preoccuparmi della mia città e del sociale. Il mio posto è qui e voglio contribuire al miglioramento della mia città. Ci credo, e spero sia quello che sto facendo in questo momento».
Tutte le fotografie sono di Ester Di Bona